Qualcosa potrebbe cominciare così:
Il problema non è tanto starsene seduti a pensare a quello che un giorno potremmo essere. E avere lo sguardo fisso su un oggetto qualsiasi, mentre certi rumori si fanno presenze che affondano come scandagli nelle nostre paure. Ma queste presenze stesse sono da risolvere.
Il mondo mi gira intorno, il mondo che si apre davanti ai miei occhi che ormai di adolescenza non hanno più niente, senza rimpianti. Ogni giorno dovrebbe essere un giorno speciale, un momento in cui qualsiasi cosa si prospetta come qualcosa da fare. E invece no. Torna quello sguardo fisso a catturarmi, a frame cadere in una profondissima buca, con una costanza e una perseveranza che già mi spaventano, prima ancora che il vero spavento arrivi a diventare angoscia quando la memoria decade, seduta nel fondo di uno spazio che la fisica conferma come non esistente, ma che l'uomo racconta sempre, ogni volta che parla di sé e della sua esistenza.
Tornai tardi. Ero stanco. Era notte oltre che tardi. Ma la notte non mi spaventa perché i colori non sono una verità oggettiva... Chi si nasconde riesce a mimetizzarsi meglio nella banalità, nell'oscurità di un interesse che va oltre il dover aspettare il buio. Ma alcuni animali feroci, che non hanno altro da aspettare che la solitudine della preda, agiscono meglio di notte. Ma questo non mi interessa, non più di tanto. Il mio sconvolgimento stava piuttosto nella constatazione che nessuno, in quel momento, essendo buio, preferiva lo stare sveglio al dormire. Nel paese dei ciechi si dormiva di giorno e si lavorava di notte, sfruttando le ore più fresche non potendo scegliere tra quelle luminose e quelle buie. Diciamo che il nostro ritmo della veglia e del sonno sono sono adattati a un vizio tropicale che si basa, come tutto il resto, sull'economia...
E mi misi a sedere, poggiando per un momento il gomito sul tavolo. Un susseguirsi veloce di tramonti e di albe spenti da un telecomando che sospende l'immaginazione del bambino; e solo una Coca Cola che macchia, rovesciandosi, i suoi pantaloni di tessuto cangiante lo riporta al suo mondo, quello del bambino che è, facendolo uscire dal mondo della Coca Cola.
"Un rubinetto gocciola speranze", mi alzo, e fatto un passo e un altro sospeso a mezz'aria, stringo la manopola del rubinetto mentre le forchette mi guardano coi suoi occhi di riflesso. Il passo si completa nella direzione della porta d'uscita contemporaneo ad altri passi e ai gesti dell'abitudine: spegni la luce, alza gli occhi per osservare com'è il cielo, accosta la porta. Lights, penso. E questo mi spaventa perché mi porta dove non voglio andare quando la solitudine mi conquista e io cedo senza guardare il mondo.
Ero seduto, il giorno dopo, a mangiare con altri. Non c'era silenzio e nessuno aveva intenzione di tacere.
Guardavo, senza impressioni, il cibo che entrava nella bocca degli altri. E, masticato, deglutito.
Fabio Cinti